martedì 5 giugno 2012

mare al mattino


di Margaret Mazzantini avevo letto solo "Zorro un eremita sul marciapiede", anni fa, e ricordo che mi era piaciuto tanto. Poi, semplicemente, non è più arrivata sul mio cammino. Oggi ci arriva con questo libriccino che è un gioiello, per tante ragioni. Intanto, come sempre parto dal linguaggio, che è un diretto come quello degli scrittori irlandesi ed asciutto come gli eredi di Pirandello, Verga e Sciascia. Leggo che lei è nata a Dublino. Ah ecco.
Le parole servono quando c'è qualcosa da dire, e non ne servono troppe, solo quelle necessarie, scelte, giuste per il concetto. Questo mi sembra di intuire che sia un obiettivo ed una regola di Margaret. E mi piace.
La storia sono tre storie principali intrecciate ad altre secondarie. Due storie sono all'interno della stessa famiglia, l'altra è un'attualità che crediamo di conoscere ma che purtroppo invece spesso ignoriamo, un po' perché siamo tenuti all'oscuro un po' perché ci va bene. Siamo stanchi. Di dolore, di povertà, di diritti negati, di sporcizia. Di profughi, delinquenti, barconi sulle spiagge, bambini morti, dittatori che fanno i loro porci comodi per anni. Siamo stanchi di guardare il male e lo schifo. Soprattutto se sono il male e lo schifo degli altri.
Col cazzo.
Il male e lo schifo degli altri sono il nostro male ed il nostro schifo. Non c'è storia. Abbiamo il diritto di chiudere gli occhi e riposare ogni tanto, ma non possiamo credere di non essere coinvolti, non possiamo smettere di commuoverci e provare empatia verso l'Umanità.
Così la Mazzantini racconta di profughi ed emigrati. Italiani poveri ed innocenti portati in Libia da un governo, quello fascista, che povero ed innocente non era. Che in Libia ci hanno vissuto e lavorato, e poi sono stati cacciati come reietti, trattati peggio delle bestie più schifose, da Gheddafi e dai suoi, lo stesso Gheddafi che qualche anno fa è venuto qui a far festa con Berlusconi e signorine varie. Quegli italiani, una volta tornati in Italia, erano tripolini, e furono emarginati e dimenticati.
La storia di Vito, italiano figlio di una tripolina, Angelina. Della stessa Angelina, cacciata dalla Libia con i suoi genitori quando aveva undici anni, e che ha ancora la vita tagliente come una lama, dentro. Le altre storie, quella dei genitori di Angelina, quella di Alì che da bravo bimbo coraggioso è diventato membro dei servizi segreti del raìs.
E la storia di Jamila e Farid. Straziante quanto dolce e vera e terribile. La storia di due vittime della guerra e del mare e del disinteresse. La storia di due ragazzini, lei madre ventenne e lui figlio che potrebbe essere un fratello minore. Farid che muore in braccio alla mamma mentre sono su un barcone della speranza che ha perso la rotta e finito il carburante. Jamila che è rasserenata di non essere morta prima di lui, perché aveva il terrore di lasciarselo cadere dalle braccia e che lui restasse solo in mezzo a quella gente resa crudele dalla traversata senza arrivo e dalla sete, solo senza la mamma.
Storie che finiscono più o meno bene, come per Angelina o per Vito, e storie che finiscono e basta, come per Jamila e Farid. Storie che meritano di essere raccontate ed aiutano a riaprire un po' gli occhi che avevamo chiuso per la stanchezza.

1 commento:

  1. Grazie per l'ennesima segnalazione.
    La stanchezza di cui parli ovviamente è segno dei tempi. Forse solo l'arte che non cede alla retorica e a facili intenti moralistici può aiutare ad aprire gli occhi.
    Quelle come noi, che scelgono gli "occhi che guardano dentro", forse il rischio è di assimilare posizioni alla Pirandello: convivere con il fascismo di ieri e di oggi è facile quando quel che conta per noi è dentro, non fuori...
    Come combattere la stanchezza?
    Arte sì.. non c'è altro che possiamo fare?

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