Scrivo ancora da un computer che non mi permette di caricare immagini. Un delirio.
Ma scrivo lo stesso per pubblicare un racconto che Lulù, quella del blog I fiori neri di Artemisia, mi ha donato..come spesso mi capita nella vita, questi giorni sono difficili. Giorni nei quali forse la strada più facile sarebbe tacere, abbassare lo sguardo e accettare l'aggressività di chi credevo e speravo mi avrebbe dato accoglienza e comprensione. Giorni nei quali le lacrime affiorano spesso, e ad affrontarle con me, a tollerarle con me, a dar loro un senso con me, ci sono due persone che, per motivi diversi, non mi aspettavo ci sarebbero state. Una è la mia bambina, che nella sua dolcezza e nel suo candore si è messa a consolare sua madre (ps che madre di merda). L'altra è una Donna che è da così poco nella mia vita eppure tiene in mano così tanto di me (ps che paura fottuta ne ho).
E infine, arriva Lulù, con il suo racconto. Così ad hoc per questo mio momento. Così doloroso ma coraggioso. Così suo ma anche mio. Non posso credere che sia un caso, non posso credere che una mano invisibile ed una mente sottile non abbiano guidato le mani e la mente di Lulù.
E così, previa la sua autorizzazione, lo pubblico qui. Prendetevi cinque minuti, perché come dico sempre questo blog è un contenitore abbastanza scadente ma a volte contiene cose belle (terzo ps: soprattutto se non le scrivo io).
LA LINGUA
Quando LUI ha socchiuso gli occhi ho osato alzare lo sguardo pieno di speranza. Mi sbagliavo. LUI ha abbassato il capo alle parole del Gran Visir e il magnifico non ha perso tempo: ha dato subito ordine ai soldati di portarmi nelle segrete. LUI però ha sentito e ha subito alzato il braccio.
«Non oserete farle questo.»
«Certamente Vostra Grandezza» un inchino di perdono «come preferite, dormirà nell’Harem.»
«Ricordate Visir, lei è mia moglie come le altre.»
«Lo ricorderò sempre, Vostra Grandezza.»
«All’alba mozzatele la lingua e…»
Si interruppe, forse per il mio pianto di sincero pentimento. Cominciai a tirarmi i capelli per attirare l’attenzione. Tutto inutile.
«Ogni Vostro desiderio è un ordine, Vostra Grandezza.»
«Non fatele male. Lei dovrà sopravvivere alla condanna o pagherete con la vostra vita.»
«E’ un onore servirvi e ricevere la Vostra infinita saggezza, Vostra Grandezza.»
Alycia e Vassilissa erano sul portone e mi aiutarono ad alzarmi. I loro capelli profumavano di passiflora e mandorla. Mi sembrarono angeli con vesti bianche e occhi pietosi per me che avevo osato contraddire la parola del Gran Visir. Dovevo essere impazzita quella mattina. Cosa credevo? Ero accecata a pensare che l’essere stata scelta per tante notti e sentirmi dire dalle sorelle che ero la preferita di LUI, questo facesse di me una regina. Eccomi precipitare dall’alto della mia sciocca arroganza di donna. Se vivrò lo devo soltanto alla magnanimità della Legge del contrappasso che esige l’asportazione della parte che ha recato l’offesa. Alycia mi stringe il braccio, ha sentito anche lei la condanna e mi sembra che le sue guance siano umide. Quando saremo da sole nel salone e ci toglieremo il velo, potrò guardarle gli occhi e capire di più. Ci incamminiamo nei corridoi adorni di tappeti rossi che mi ricordano i tempi in cui a testa alta avanzavo nella notte orgogliosa, fiera come la luna per aver giaciuto con LUI e avere il suo seme dentro. Due settimane dall’ultima volta e sembra una vita fa.
Mentre Vassilissa apre il portone mi viene da pensare che il sangue terribile di bambina innamorata del sole rosso deve avermi permesso l’oltraggio di cui sono colpevole: ho contraddetto il Gran Visir. Mi volto indietro, vorrei tornare nella stanza del consiglio e suggerire meno clemenza con me, perché non è stata la lingua a parlare ma il sangue irrequieto e la giusta pena sarebbe che io fossi liberata da tale demone. Potrebbero tagliarmi i polsi e io morirei con grande dignità vedendo allontanare da me la causa della colpa. Mentre penso così, provo vergogna e pena per me stessa: parlare, ancora parlare. Non imparerò mai che una donna deve stare zitta di fronte agli uomini e che, di fronte a LUI e al suo magnifico servo Gran Visir, il silenzio deve essere assoluto e religioso: bisogna contemplare il divino maschile che offre la vita per noi.
«Coraggio entriamo.» si toglie il velo.
«Perché piangi? Piangi per me?»
Alycia mi abbraccia e mi confondo; tento di allontanarla dalle mie braccia perché ho paura di contaminarla con la mia impurezza.
«Soltanto la lingua, è soltanto la lingua che ti fa difetto.»
Vassilissa si avvicina.
«Ci sono unguenti di mirra e cenere che insieme al cauterio sigilleranno la ferita nella tua bocca e presto tornerà a essere la rosa del Nostro Sultano.»
Mi abbraccia anche lei e mi bacia tra i capelli.
Anìmoro si avvicina e mi porge un vassoio di farro, falafel, crema di latte in Cumino e un calice di acqua e grano fermentato. Tra noi è l’unica che ha il coraggio di un sorriso. Anìmoro è l’ultima moglie – tre mesi fa le nozze- e ricordo ancora che la guardavamo incredule, sembrava una bambina e dopo venti giorni lei fu orgogliosa di mostrarci le sue vesti che d’improvviso si macchiavano di rosso. Suppongo che adesso dovrei cenare e lasciare che la mia incauta sciocca lingua circondi il cibo. Finalmente silenziosa. Oppure potrei inghiottire privando lei del suo ultimo pasto. Devo impazzire a ragionare così.
«La colpa è mia, la lingua è soltanto una serva.»
Nascondo il viso tra le braccia. Non voglio che mi vedano piangere ancora. Sento una carezza tra i capelli. Alzo appena lo sguardo: è un pettine d’osso profumato che Alycia cerca di scorrere tra la mia lunga chioma perché non perda di lucentezza.
«Domani è quasi un giorno di festa.»
La guardo incredula.
«Perderai la lingua ma tornerai tra noi pura.»
Come posso non amarla a sentirle dire parole così tenere? Mi accorgo che due lunghe lacrime rigano il suo viso. Mi avvicino di più e le sfioro le guance calde. Restiamo abbracciate a lungo fino a che le ultime fiaccole delle camera vengono spente. Il frinire dei grilli innamorati delle stelle ci giunge dalla finestrella. Fino a che ci saranno punti di luce nel cielo, ci sarà speranza anche per chi è nato nell’errore di essere donna.
«Non sono punti ma gocce di luce.»
La guardo senza capire.
«Gocce di luce come te.»
«Alycia, non bestemmiare.»
Mi guarda come non vorrei. Ricordo che la follia della mia lingua ha osato sfidare il cielo nell’oscurità. Io e Alycia, le nostre labbra si sono sfiorate mosse da un sesso basso che ci fa credere in certi istanti di essere angeli. La guardo incredula. La sua lingua è tenera e cerca la mia. Vuole ricordarla, oppure piuttosto morderla per punirla di aver preferito le parole alla sua dolcezza?
Onde dopo onde. Non c’è nessun porto in cui possiamo approdare, ma le lingue giocano a salutarsi nelle lenzuola dell’ultima notte. D’improvviso mi metto seduta nel letto e cerco di intravedere la sagoma diafana delle mie mani alla luce bianca della luna. E la luna pian piano dissipa le parole ingenue.
«Ti amerò per sempre.»
«Non potrai Alycia»
«Perché sorellina del mio cuore?»
«L’anima non è nel cuore. E neanche nella testa. E’ nella lingua.»
Mi abbraccia atterrita e mi copre la bocca con la mano. Bacio il palmo adorato e lentamente lo scosto dal mio viso. E’ necessario che io liberi ancora parole: da domani non potrò che ricorrere a gesti per farmi capire. E potrò chiedere cibo e tante altre cose, ma niente di quanto ho urgenza di dire adesso.
«Alycia, quando il coltello mi priverà della lingua, è la mia anima che si allontanerà da me.»
«…»
«Non posso permetterlo, lo capisci?»
Le prime luci dell’alba mi hanno raggiunto con i capelli intensi di nero, gli occhi rossi di pianto e la gioia immensa della verità. Cammino tra gli arazzi preziosi a testa alta. Le gambe tremano ma supplico le ginocchia di non cedere e rovinare tutto. Quando entro nella sala della condanna mi sento subito confortata: il magnifico Gran Visir è presente. Si vuole assicurare che il coltello sia ben pulito e la mano del medico ferma. LUI naturalmente non c’è e sono felice che non veda quanto sto per fare. Non gli piacerebbe.
«Non è stata la lingua a scegliere la parole.»
Gli uomini mi ignorano e lo ripeto alzando la voce.
«Non è stata la lingua! E neppure il sangue che scorre nelle vene!»
Due guardie mi obbligano a piegarmi sul letto di esecuzione. Mi dimeno per liberarmi, devono lasciarmi dire. Il Gran Visir ha pietà di me. Fa un gesto ai soldati e si avvicina.
«Cos’hai da dire, donna?»
Ci penso un istante. Potrei dire che l’anima è nella mia lingua e che nessuno ha il diritto di dividerci; forse riuscirei ad aggiungere che senza anima non ha senso vivere. Potrei accusare e dire che Dio giudicherà il sacrilegio. Parole soltanto parole. Il magnifico Gran Visir non ascolterà affatto. So cosa devo fare. Approfitto della vicinanza sputo sul suo viso. Mi guarda inorridito e gli rovescio addosso le parole degli abissi della mia anima. Il mio cuore batte impazzito e mi accorgo appena quando corre via dalla porta. Le guardie mi guardano divertite. Il medico scuote la testa. L’esecuzione è rimandata. Quando Sua Eccellenza verrà a sapere di quest’altra mia prodezza, che succederà?
«Quando sarai al Suo cospetto, supplica perdono.»
Guardo il medico turbato dalla mia bellezza. Io ho una paura stramaledetta. Ho paura che mi strapperanno la lingua con la forbice infiammata o che mi seppelliranno ancora viva nelle sabbie rovente del deserto. Ci penso e pian piano il respiro si calma. Quando LUI vorrà vedermi per giudicare, resterò zitta in un inchino silenzioso come la morte. LUI capirà, sarà clemente e mi farà tagliare la testa. Morirò con la mia lingua.
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