giovedì 11 aprile 2013
donne dududu8: Artemisia Gentileschi
da qualche anno su una mensola a casa mia se ne stava, non ancora letto, un libro dal titolo "La passione di Artemisia", di Susan Vreeland. Un po' perché il tempo è quello che è, un po' perché di Artemisia qualcosa avevo comunque studiato per conto mio, un po' perché, dopo che lo avevo già comprato, avevo letto che non era fra i migliori libri scritti su di lei.
In effetti, non è molto aderente alla vera storia della sua vita, ci sono delle lacune non da poco giustificate comunque dal fatto che il libro non è una biografia bensì un romanzo, e quindi ha la sua dose di fantasia e drammatizzazione. Quindi, se volete avere notizie precise sulla vita di questa pittrice, magari scegliete un altro libro. Ma questo ha avuto il merito di farmi vedere lucidamente perché la Gentileschi è stata e spesso è ancora un emblema del femminismo. In questo la Vreeland riesce bene, a far passare i sentimenti, il pathos, il dramma ed il fuoco.
Artemisia fu figlia di un pittore molto quotato all'epoca (fine 1500-1600) a Roma, Orazio Gentileschi. Fu tenuta a battesimo da un altro pittore. I suoi fratelli dipingevano. Visse in un quartiere di pittori. La pittura al tempo non era più solo artigianato ma era già diventata arte, grazie alle figure gigantesche di Leonardo, Tiziano, Raffaello, Mantegna, Michelangelo, Tintoretto e di molti, moltissimi altri. Però la pittura era ancora sostanzialmente un lavoro, un'attività con dei costi e dei ricavi, con delle committenze di varia origine (ecclesiastica, di corte, privata, nobile, borghese...). Un mestiere di bottega, e la bottega di un pittore come qualsiasi altra diventava il luogo di lavoro di tutta la sua famiglia, una generazione dopo l'altra. Verrebbe da pensare che sia stato naturale per Artemisia diventare pittrice.
Certo che no. Era una donna e questo chiaramente cambiava tutto. Neanche a dirlo, no? Ci furono, prima di lei e nei suoi stessi anni, altre donne pittrici. Ma era un percorso accidentato e difficile. In questo senso Orazio riconobbe il grande talento della figlia e ne divenne il promotore, insegnandole tutto ciò che sapeva, mostrando le sue opere agli altri, scrivendo lettere di elogio.
Fino a quel giorno.
Agostino Tassi era un pittore anche lui: era amico di Orazio, dipingevano insieme il Casino delle Muse della villa di cardinal Borghese. Dopo il lavoro, cenavano spesso insieme, ridendo e parlando di arte e della vita di ogni giorno. Orazio gli aveva chiesto di insegnare le tecniche della prospettiva ad Artemisia, e lui l'aveva fatto.
Beh. L'aveva anche stuprata ad un certo punto. Ma le aveva promesso di sposarla però. Che carino. Peccato che Tassi fosse già sposato, e contemporaneamente avesse anche una tresca con la sorella dell'ignara mogliettina. Sempre più carino.
Artemisia ed il padre denunciarono Agostino, ma l'impegno di Orazio a quanto pare si fermò li'. Artemisia fu la vera accusata in quel processo: trattata da puttana, da ragazzina che se l'era andata a cercare, sottoposta molto probabilmente a visita ginecologica (come poteva essere svolta nel Seicento) davanti agli occhi compiaciuti di giudice avvocati e notaio, e soprattutto sottoposta a tortura. Sì, lei. Non Agostino, il porco, che naturalmente non fece mai una piega nel vedere a quanto dolore fosse sottoposta la donna che aveva giurato di amare. Se una donna muoveva accuse verso un uomo, specialmente certe accuse, veniva torturata. Se anche sotto tortura continuava a sostenere le stesse accuse, e non moriva, allora forse l'uomo in questione riceveva una condanna. La sibilla, si chiamava questa consuetudine. La tortura era concentrata sulle dita. A volte veniva legata una corda attorno ad ogni dito, e poi stretta sempre più fino a che si potevano anche segare le dita, appunto. Atre volte era lo schiacciamento dei pollici. Possiamo immaginare, oltre al dolore ed alla paura, il chiarissimo pensiero nella testa di Artemisia: una carriera, quella di pittrice, finita. Che vuoi fare senza l'uso delle dita? Possiamo immaginare il dolore anche interiore di questa ragazzina, che era vittima e tutti volevano far passare come colpevole, e che vedeva il proprio amato papà rimanere lì senza far nulla, permettere tutto questo.
Perciò Artemisia ritirò le accuse. Agostino fu condannato ad una pena più di facciata che reale, e lei fu segnata a dito come una puttana e per di più bugiarda. Il resto lo racconto nel prossimo post.
Mi piace pensare ad una cosa: qualche anno dopo questi eventi, la Gentileschi conobbe Galileo Galilei, e rimase con lui sempre in buoni rapporti. Chissà cosa avrà pensato Artemisia quando, anni dopo, sempre a Roma, Galileo fu costretto all'abiura. Chissà quanto simili le devono essere sembrati il giudice e l'inquisitore. Chissà se ha pianto per la miserabile e laida crudeltà abietta del mondo. Artemisia perdonò suo padre, forse, poco prima che lui morisse. Ci vollero anni, e capisco benissimo perché, visto che lui l'aveva abbandonata (e si vocifera che anche lui avesse avuto con la figlia un rapporto non completamente onesto). Chissà se Galileo divenne un pochino il padre che Artemisia sognava, un uomo leale, pulito, un uomo che capisce ed accoglie.
Orazio procurò alla figlia un matrimonio riparatore, veloce e nascosto, con un modesto pittore fiorentino, Pierantonio Stiattesi. Così Artemisia se ne andò da Roma alla volta di Firenze, e da quel momento in poi ebbe una vita ed una carriera tutto sommato positive, anche se fra alti e bassi. Nei prossimi post vorrei raccontare del suo rapporto col marito, dei suoi viaggi, delle sue figlie..
Oggi mi fermo qui, con negli occhi l'immagine di questa ragazza straordinaria, piena di talento e di dolore e di rabbia e di paura e di fuoco, che riuscì a fare di questa miscela esplosiva una miscela da usare sulla tela. E con che risultati.
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Non posso che essere compiaciuto e commosso per questo post...
RispondiEliminaMi piace immaginare che Artemisia in "giuditta decapita oloferne" ci indichi la via: il maschile deve morire affinché il femminile possa vivere dentro di noi e con noi. Sì, una provocazione la mia, ma per suggerire un metodo di ricerca interiore.